Dogana? Ah, pensavo fosse un’app.
C’è qualcosa di profondamente elvetico nel svegliarsi sempre all’ultimo. Lo abbiamo già fatto con l’esercito, lo stiamo facendo con la cybersicurezza, e ora ci stiamo preparando a farlo con la dogana.
Sul piano militare ci siamo accorti, dopo anni di tagli, comandi disallineati e decisioni discutibili, che la neutralità non protegge più nessuno. Nel 2022, ad esempio, la RUAG è finita nel mirino per sospette irregolarità nella vendita di materiale bellico dismesso: un’indagine interna ha rivelato gravi lacune nei controlli. Negli anni seguenti, sono emerse ulteriori criticità, tra cui operazioni di esportazione non autorizzate, l’invio di documentazione non conforme, e l’apertura di un’inchiesta penale da parte della giustizia militare. Il caso dei carri armati Leopard venduti a una società tedesca ha attirato l’attenzione internazionale, sollevando dubbi sulla gestione strategica e sulla trasparenza dell’azienda, già criticata per conflitti d’interesse nella sua trasformazione in holding. Lo stesso esercito ha dovuto affrontare polemiche per l’acquisto di droni non funzionanti e per l’impreparazione di alcune sue unità territoriali. Per anni, intere componenti della difesa svizzera sono state sottodimensionate e prive di investimenti in manutenzione e aggiornamento tecnologico. La guerra in Ucraina ha svegliato tutti. Anche noi. Ora corriamo: riarmo, aumento del budget, esercitazioni. Si cercano soldati, ufficiali, materiale. Si pensa persino a un servizio militare più lungo. Insomma: ricostruiamo quello che avevamo smantellato.
In campo informatico è andata anche peggio. Attacco al sistema informatico del Dipartimento federale degli affari esteri nel 2023. Dati sensibili sottratti. Prima ancora, la Posta, il Centro di calcolo cantonale di Neuchâtel, la piattaforma Xplain. Tutti colpiti. Più recentemente, sono emersi gravi problemi anche nel sistema informatico del Dipartimento federale della difesa (DDPS), finito sotto osservazione per vulnerabilità critiche e ritardi nel rafforzamento delle infrastrutture. Alcuni attacchi mirati, attribuiti a gruppi hacker esteri, hanno compromesso server sensibili legati alla logistica e alla protezione dei dati personali dei funzionari. Il Consiglio federale è arrivato a dichiarare che la Svizzera è diventata “uno dei bersagli preferiti degli attacchi cyber in Europa”. Bene, e noi cosa facciamo? Corriamo. Si assumono tecnici (anche non i migliori), si creano unità, si parla di cyberdifesa come se fosse una novità. Ma la verità è che abbiamo dormito.
E adesso tocca alla dogana. Solo che qui non dormiamo: qui sogniamo.
E sogniamo da tempo. In alcune regioni svizzere, il rapporto tra personale in uniforme e specialisti doganali effettivamente attivi nel controllo merci è ormai di circa 60 a 2. Una sproporzione che non è un caso, ma sistemica, e che tende ad aggravarsi con il progressivo pensionamento dei doganieri esperti e la mancata sostituzione formativa. Vale la pena ricordare che il progetto DaziT, avviato con l’intento di modernizzare l’intero apparato doganale svizzero, era stato inizialmente preventivato a 393 milioni di franchi, cifra poi corretta a circa 465 milioni secondo il Controllo federale delle finanze. Ma considerando anche i costi delle nuove strutture fisiche, gli accentramenti logistici e gli investimenti collaterali in infrastrutture informatiche e formazione, i costi complessivi del progetto potrebbero avvicinarsi al miliardo di franchi. Una cifra enorme, che solleva interrogativi sulla gestione, sulla trasparenza e sull’effettiva efficacia dell’investimento. Dal 2016, con la nomina di Christian Bock a direttore dell’Amministrazione federale delle dogane (poi UDSC), è iniziata una trasformazione profonda, imposta dall’alto, che ha generato numerose critiche da parte del personale, dei sindacati e anche di diversi parlamentari. L’accorpamento tra dogana e guardie di confine è stato vissuto da molti come uno snaturamento del ruolo tecnico e fiscale della dogana. Alcune figure chiave, come quella del doganiere commerciale, sono state eliminate senza un vero piano di sostituzione. Si è puntato tutto sull’unificazione, sulla digitalizzazione, e sulla comunicazione di efficienza. Ma la realtà è più complessa. Oggi, la gran parte del personale operativo è dedicata a compiti di sicurezza, come il controllo dell’immigrazione irregolare, il traffico di armi e sostanze vietate, e la sorveglianza delle franchigie IVA. Tutti compiti importanti, ma che non corrispondono alla missione primaria di un’amministrazione doganale sotto il Dipartimento delle finanze, che dovrebbe invece concentrarsi sul controllo del traffico merci e sul rispetto delle normative tariffarie. Nessun altro servizio pubblico ha questa competenza.
Nel 2022, la Commissione della gestione del Consiglio degli Stati ha redatto un rapporto molto critico sull’intera operazione DaziT, denunciando mancanza di trasparenza, deficit nella pianificazione e un’eccessiva fretta nell’implementazione. Numerosi funzionari hanno lasciato l’amministrazione. Altri hanno denunciato, anche tramite lettere aperte, un clima dirigenziale verticistico e la mancanza di dialogo.
E proprio in Parlamento, durante la discussione della nuova legge doganale, diversi deputati hanno ammesso apertamente di non aver avuto il tempo o le competenze per analizzare il testo in profondità. Qualcuno ha parlato di fiducia nell’amministrazione, altri hanno confessato di aver votato “a occhi chiusi”. Il soprannome dato alla legge – Monster-Gesetz – non era casuale: oltre 500 pagine di testo, troppo lunga, troppo tecnica, troppo delegata a regolamenti futuri. Come se non bastasse, in fase di discussione al Consiglio nazionale era addirittura passata una proposta per eliminare l’obbligo di dichiarazione doganale per tutte le merci esenti da dazio. Un’idea che, pur presentata come una semplificazione, avrebbe creato un paradosso burocratico: più oneri per le imprese, meno controllo per lo Stato, e un incremento netto dei rischi legati a evasione, concorrenza sleale e perdita di tracciabilità. Una scelta che avrebbe svuotato ulteriormente la funzione doganale, cancellando qualsiasi forma di tracciabilità per gran parte dei flussi commerciali. Fortunatamente, la Commissione degli Stati ha rivisto questa decisione, ma il segnale resta: si procede per semplificazioni, senza una visione d’insieme.
E ora, a “stretto giro di posta”, gli stessi parlamentari dovrebbero votare – o lasciar passare – altre 1300 pagine di ordinanze esecutive. Non si tratta solo di numeri: queste pagine conterranno la sostanza di quanto la legge ha lasciato in bianco. In passato, più di un deputato ha ammesso di aver votato la BAZG-VG senza leggerla davvero, confidando nell’Amministrazione o semplicemente per mancanza di tempo. Ora, ignorare ancora una volta l’imperativo democratico di esaminare quelle 1300 pagine di norme attuative significherebbe accettare che il Parlamento abdichi al proprio ruolo legislativo. Non è solo una questione di metodo, ma di legittimità. Nessuno comprerebbe un’auto senza aprire il cofano. Perché farlo con la riforma più strategica per il commercio svizzero? In fondo, i cittadini danno l’impulso, ma spetta ai parlamentari fare il loro mestiere: assicurarsi che una riforma così centrale non passi “al buio”.
E nel momento in cui ci siamo messi in pantofole, gli altri hanno cominciato a indossare gli anfibi.
Trump, con la grazia di un bulldozer, ha annunciato dazi del 31% sulla Svizzera. Perché? Perché la nostra bilancia commerciale non è mai apparsa davvero equilibrata agli occhi americani. Perché esportiamo bene, ma non importiamo abbastanza da loro. Perché, in un mondo che si stringe in blocchi, restare nel mezzo equivale a stare nel mirino. E magari, guarda caso, proprio perché siamo stati così aperti, con accordi bilaterali attivi con la Cina, questo comincia a dare fastidio agli Stati Uniti.
Nel frattempo, Bruxelles si prepara a nuovi vincoli, nuovi controlli, nuove verifiche sulle filiere. Si stanno introducendo strumenti come il CBAM, un meccanismo per compensare le emissioni di CO₂ dei prodotti importati; l’ICS2, che rafforza i controlli anticipati sulle spedizioni; il DPP, il passaporto digitale dei prodotti per tracciarne materiali e ciclo di vita; l’EUDR, contro l’importazione di beni legati alla deforestazione illegale; e le norme REACH e SCIP, che impongono maggiore trasparenza sulle sostanze chimiche. Tutto ciò richiederà sistemi doganali reattivi, interfacce intelligenti e soprattutto, persone preparate a interpretare, controllare e agire. E noi, con una dogana senza funzionari doganali esperti, rischiamo di diventare una “porta grigia” tra est e ovest. Un corridoio per triangolazioni, una piattaforma perfetta per chi vuole far passare merci con provenienze opache. E nei casi di infrazione doganale commessi da operatori esteri, la mancanza di personale formato e presente sul territorio rende complicata l’apertura e la gestione di procedimenti legali: un altro segnale della fragilità crescente del presidio.
E allora ecco la domanda: quando ci sveglieremo anche stavolta? Già nel 2022, attraverso voci interne e segnalazioni sindacali, il personale doganale aveva lanciato l’allarme: Allegra sembrava non funzionare nella pratica, mancavano accessi, risorse, e una strategia coerente. Ma la riforma è andata avanti comunque. E oggi, nel 2025, sembrerebbe che anche all’interno dell’Amministrazione si stiano riconoscendo alcune fragilità: si parla di criticità nella formazione, di difficoltà nell’applicazione pratica delle nuove competenze e della necessità di rafforzare la struttura organizzativa. Non si tratta di sorprese, ma di sviluppi ampiamente previsti. La mancata formazione di nuove leve, unita alla dispersione del sapere specialistico doganale, mette a rischio la capacità stessa della Svizzera di esercitare un controllo efficace sul traffico merci. Mentre si smonta la competenza, aumentano le responsabilità affidate alle aziende, che dovranno autodichiarare in assenza di un controllo statale diretto. Vogliamo davvero aspettare che il danno sia conclamato per renderci conto che servono nuovamente specialisti? Che è indispensabile una formazione doganale specifica e aggiornata? Che serve un presidio doganale moderno, sì, ma soprattutto concreto?
Perché la digitalizzazione è utile, ma non sostituisce la presenza. Il digitale deve servire a rafforzare l’intelligenza istituzionale, non a deresponsabilizzarla. Automatizzare non può significare abdicare. Se la nuova dogana digitale perde il presidio umano e il filtro critico, diventa vulnerabile: non solo agli attacchi, ma agli errori sistemici. E senza dati doganali completi e affidabili, si affida tutto alla buona fede delle imprese, un po’ come se i treni smettessero di controllare i biglietti confidando nell’onestà dei passeggeri. In più, affidare le sorti del nostro commercio estero a regolamenti europei per colmare le nostre mancanze significa avvicinarsi pericolosamente a una dipendenza normativa, che alcuni definiscono già come una futura adesione di fatto all’unione doganale UE. Perché il mondo non funziona a semplificazioni, ma a interessi. E perché, se continuiamo così, ci troveremo a dover ricostruire anche la dogana, come abbiamo fatto con l’esercito e con la cybersicurezza.
Il rischio più grande non è un attacco. È non avere più nessuno che sappia cosa fare quando accade