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Marco Romano

Marco Romano

INTERVISTA AL CONSIGLIERE NAZIONALE

MARCO ROMANO

“Nella situazione attuale, il confine di Stato gioca ancora un ruolo estremamente importante, sia da un punto di vista commerciale che per questioni di sicurezza e doganali. Le dogane vanno mantenute e fatte valere…”

 

Il 23 giugno il popolo britannico è stato chiamato a votare sulla cosiddetta “Brexit”, ovvero sulla possibilità che la Gran Bretagna fosse ancora uno Stato membro dell’Unione europea. Il “leave” di Londra è stato uno smacco di proporzioni inimmaginabili per l’Unione europea e potrebbe innescare un effetto domino su altri Stati comunitari. Condivide questo pensiero? 

Innanzitutto credo che qualsiasi fosse stato il risultato del 23 giugno, la Comunità europea attraversi comunque un momento di disorientamento. Tutti i Paesi ora guardano a Londra con curiosità e preoccupazione per le conseguenze che si avranno sulla Comunità.
Io temo che gli “euro-burocrati” e la tecnocrazia di questa Comunità – che a mio avviso ha una legittimità democratica bassissima, ma regna in Europa – aumenteranno e Bruxelles coglierà l’occasione per ribadire la necessità per gli Stati aderenti di stare uniti. Temevo che il “Brexit” non sarebbe passato, anche se per poco; al contrario la Gran Bretagna vuole uscire dall’UE e questo risultato purtroppo non farà altro che rafforzare coloro che a livello centrale cercheranno di accentrare ulteriormente il potere.
Credo che questo esito darà una spinta alla coesione a Bruxelles, che non significa coesione tra i vari Paesi, ma che verso l’esterno si sarà ancora più rigidi: il risultato avrà una forza di centralizzazione che aprirà poi ulteriormente i fronti nei vari Paesi ai movimenti antieuropeisti. Ci sarà, da un lato, un rafforzamento di Bruxelles, ma nel contempo un aumento della conflittualità tra Unione europea e singoli Paesi.
Nei confronti della Svizzera, sono estremamente pragmatico razionale, l’Unione europea sarà così concentrata su se stessa che le questioni con la Svizzera saranno messe in secondo piano.

 

Da questa nuova situazione, la Svizzera potrà trarne dei vantaggi? 

Per me no, almeno nell’immediato. L’Unione europea passerà ora almeno sei mesi solo a dibattere sulla sua esistenza medesima, perché la problematica innescata dalla “Brexit” rimarrà all’ordine del giorno per molto tempo.
L’unico spiraglio che vedo è quello di dire all’Unione europea che, una volta consolidata in questa forma – l’UE farà fatica ad acquisire nuovi membri o accettarne altri – sarebbe meglio regolare in maniera costruttiva i rapporti con la Svizzera per non avere un altro fronte di conflitto e di smettere di considerarci solo, come si dice in tedesco, “Rosinenpicker”.

 

Allora lei è a favore dell’Unione europea? 

Io sono a favore di una Comunità economica europea organizzata, sono totalmente contrario al sistema odierno in cui si è costruito un livello intermedio senza legittimità democratica, che non funziona, che non gestisce i veri problemi e che i problemi urgenti, come l’immigrazione ad esempio, non riesce nemmeno ad affrontarli.
Ci troviamo di fronte ad un’Unione europea che è riuscita a regolare la questione della mobilità degli animali, con la creazione del passaporto per gli animali, e dall’altro lato non è stata ancora in grado di affrontare adeguatamente il problema migratorio attuale: il gatto ha il passaporto ed il migrante che arriva a Lampedusa non lo si riesce a gestire. E’ un totale fallimento istituzionale.

 

Molti dicono che dall’accordo TTIP tra l’Unione europea e USA ne beneficeranno tutti, Svizzera inclusa. Ne siamo davvero sicuri? 

Io credo che in futuro, le prossime due o tre generazioni non ragioneranno più su spazi economici e commerciali limitati. Oggi gli spazi commerciali sono l’Asia, l’Europa, gli Stati Uniti, che hanno costruito un “ponte” tra nord e sud del continente; probabilmente l’economia europea del futuro, fra 30/40 anni, sarà legata all’Africa, etc. E’ positivo che ci siano delle trattative tra singole realtà istituzionali, ovviamente siamo nella fase iniziale di tali discussioni, ma in concreto per l’economia reale oggi la Svizzera non sta trattando. Gli interessi economici dei vari Stati membri sono diversi tra loro e l’approccio che dovrebbe portare alla loro convergenza non è uniforme; quelli della Svizzera ancora di meno, perché è fuori da tutto.
In questa situazione il nostro Paese, secondo me, deve continuare a fare quello che ha sempre fatto e che negli anni si è rivelata una giusta politica estera: stare al tavolo delle trattative con attenzione, intervenire sulle questioni che ci riguardano e nel contempo affrontare le problematiche che abbiamo al nostro interno, ma non bisogna fare il passo più lungo della gamba anticipando o spingendo altri a prendere decisioni.

 

La Svizzera ha in essere degli Accordi bilaterali con l’UE. A tal proposito uno studio specifico realizzato su mandato dell’Avvocato Tito Tettamanti sostiene che l’importanza di questi accordi è sopravvalutata dalla Svizzera e che potremmo farne benissimo a meno… 

Anzitutto ritengo che ogni studio sia positivo. Questo studio evidenzia dei numeri, ma non evidenzia quale possa essere oggi l’alternativa. Oggi abbiamo i “bilaterali” e chi dice che dobbiamo uscirne dovrebbe dire qual è l’alternativa. La Svizzera ha sempre avuto degli accordi con i Paesi confinanti ed i bilaterali, nello specifico, li abbiamo perché i Paesi aderenti all’UE ci hanno richiesto di trattare con loro in maniera unitaria e non come singoli Stati. Potremmo uscire dai bilaterali per trattare singolarmente con ogni singolo Stato per ogni tema: se questo sia meglio o peggio per l’economia, non lo si può calcolare ed ogni studio sulla situazione attuale non fornisce dati sulla situazione di domani. Considerando la debolezza della Comunità europea e degli Stati intorno a noi, credo che oggi sarebbe estremamente difficile andare a negoziare centinaia di nuovi accordi con i singoli Stati sperando di portare a casa qualcosa che, nell’equazione generale, possa avere un risultato maggiore o almeno uguale rispetto alla situazione attuale. Quindi, secondo me, dobbiamo tenerci ben stretta questa via di rapporto privilegiato con l’Unione europea, standocene fuori.
E’ chiaro che dobbiamo continuare a discutere con l’UE di nuovi accordi e della revisione di quelli obsoleti: ad esempio, il vostro settore dei trasporti e della logistica è totalmente cambiato rispetto alla situazione degli anni ‘90. Piuttosto, la grande sfida di oggi dovrebbe essere di trovare l’alternativa agli Accordi bilaterali.

 

In effetti nel trasporto internazionale stiamo assistendo ad una sorta di “frontalierato occulto”: subiamo la concorrenza di aziende dell’est europeo, che versano stipendi irrisori ad autisti che possono caricare merce da Zurigo a Milano, effettuando la loro professione anche sul territorio nazionale, senza alcun permesso. E’ ipotizzabile pensare a qualche tutela del nostro settore? 

I problemi del vostro settore dimostrano quanto sia paradossale la situazione di oggi: vogliamo essere attori del sistema globale, facendo trasporti dalla Germania all’Italia, ma nel contempo vogliamo tutelare tutte le condizioni quadro che ci sono in Svizzera. Se si mettono sulla bilancia le due priorità, io credo che sia più importante la tutela delle condizioni quadro: questi sono aspetti tecnici che sono emersi dopo, negli anni 90 il problema non c’era poiché, ad esempio, l’autista lituano non era ancora parte dell’UE e non godeva dei vantaggi di cui gode oggi.

 

In realtà i trasporti dalla Germania all’Italia si facevano anche prima, quando non c’era l’UE; ma il problema non è “l’autista lituano”: basta andare in Polonia per avere lo stesso problema. Addirittura adesso le aziende assumono gli autisti in Bulgaria perché costano ancora meno. 

Anzitutto sarebbe indispensabile che anche un problema settoriale come questo, venisse considerato come “nazionale”. Tuttavia, prima di tutto, bisogna affrontare la questione come problema di “categoria”: le associazioni di settore devono affrontare i problemi in maniera unitaria e presentare le questioni con precisione di fronte all’amministrazione che gestisce il tema a livello centrale. E poi… l’Europa deve smettere di allargarsi!

 

La problematica è già stata portata a Bruxelles tre anni fa, discussa e approfondita, ma ad oggi non è stato trovato nessun sistema per risolvere la questione. 

La Svizzera deve anzitutto cercare di fare fronte comune all’interno dei suoi confini nazionali. Secondariamente credo che la categoria debba contestualizzare il problema e capire quali sono le vie di fuga delle leggi, evitare che fatta la legge “si trovi l’inganno” e presentare le proprie considerazioni al Consiglio federale. Il Consiglio Federale dovrebbe evidenziare e presentare tutte le conseguenze negative di questa situazione, dimostrando quante volte ed in quante circostanze ci troviamo a subire per decisioni prese da altri (nei trasporti, nel settore dell’alimentazione, per la questione dei prezzi dei beni di consumo, per la gestione dei migranti, etc…). Facciamoci sentire!

 

Cambiando argomento, la nostra azienda è molto sensibile ai problemi ambientali ed attenta alle soluzioni ecologiche. Ho letto sul suo sito internet che lei è membro del Comitato dell’Associazione e-Mobility. Su questo tema, vede anche un futuro di e-Truck Mobility? 

L’approccio di e-Mobility è proprio di essere partner e sponda di quello che succede nell’economia privata e quindi la risposta la deve dare il settore: se il settore si evolverà e si svilupperà con queste soluzioni di “trasporto ecologico di merci”, allora saranno le istituzioni a dover creare le infrastrutture necessarie allo sviluppo in tal senso.
A fronte di tanti nuovi modelli di veicoli a basso impatto ambientale, le istituzioni dovrebbero impegnarsi a creare le condizioni quadro affinchè l’economia privata possa costruire una rete diffusa di colonnine di ricarica elettrica veloce, per averle in breve tempo anche sulle autostrade. I problemi maggiori di queste soluzioni ecologiche si riscontrano oggi sulle lunghe tratte: nel trasporto merci, quando la categoria sarà pronta, si potrebbero utilizzare le infrastrutture già costruite per una mobilità ecologica.

 

In effetti esistono già diverse soluzioni tecnologiche nel settore dei trasporti. Ad esempio ”E-force” è un camion elettrico dotato di una batteria con una buona durata, ma anche altre soluzioni più rivoluzionarie ed innovative: In Svezia, in Germania e anche in America stanno studiando soluzioni di camion elettrici alimentati come i vecchi tram, con una rete di fili sovrastante. Non crede che tra dieci o vent’anni dovremo per forza immaginarci un futuro di trasporti su gomma con camion elettrici? 

Probabilmente nel trasporto locale si: se le batterie dovessero avere una buona evoluzione tecnologica – e credo che l’avranno – alle istituzioni il compito di creare le condizioni quadro per la rete di colonnine di ricarica e potremo arrivare a trasporti di merci totalmente elettrici. L’idea del camion tipo “filobus” in Svizzera è la nostra ferrovia, perché la morfologia del nostro territorio non consente di realizzare una rete simile sulle autostrade, non abbiamo gli spazi per costruire un’altra corsia su tutte le reti stradali da dedicare ai mezzi pesanti.

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Alptransit potrebbe fornire la sua massima utilità nel traffico merci quando la rete ferroviaria sarà integrata con infrastrutture adeguate per il carico e lo scarico delle merci, dei vagoni merci e dei rimorchi caricabili su treno. La soluzione del camion alimentato come un filobus – dinamico, flessibile e non soggetto ad orari o prenotazioni – potrebbe essere una soluzione ecologica alternativa alla ferrovia?

Io credo che, dato il suo territorio limitato, la Svizzera debba necessariamente ragionare in termini di trasporto da frontiera a frontiera: non avremmo mai i fondi e il consenso politico per sviluppare ulteriormente la rete autostradale ed il trasporto da frontiera a frontiera è sulla ferrovia. Poi, per i trasporti interni o da ferrovia verso le varie destinazioni, ho la speranza che si riesca ad uscire dalle attuali dinamiche di forte competizione tra ferrovia e “gomma”. Oggi la Svizzera ha bisogno, ed a mio giudizio ne avrà bisogno anche tra cinquant’anni, sia del binario che della gomma, tanto meglio se riusciremo ad avere trasporti su strada elettrici… anche se riconosco che già oggi molti mezzi moderni inquinano meno di molte autovetture oggi in circolazione sulle nostre strade. Con il “binario” senza “gomma” siamo finiti e anche l’ipotesi opposta è impensabile.

 

Prendendo in considerazione, ad esempio, la tassa sul traffico pesante, non crede che la Confederazione alimenti degli attriti con scelte schierate a favore della ferrovia?

In effetti oggi c’è questa “guerra” e questa dinamica di competizione va fermata al più presto: da un lato gli ambientalisti e dall’altro i trasportatori su gomma dovranno capire che la Svizzera migliorerà dal punto di vista dei trasporti solo se riuscirà a combinare al meglio le due alternative di mobilità.

 

Tuttavia fino ad oggi il camion si è dimostrato il mezzo più flessibile, economico e capace di adattarsi alle esigenze delle aziende. Non vede l’Alptransit come una grande opera ingegneristica che ha ben esaltato le capacità e la precisione svizzera, ma che rimane poco fruibile per le aziende, considerando che mancano tutte le altre infrastrutture di carico/scarico?

Torniamo idealmente al “tavolo delle trattative” iniziale: la Svizzera dovrebbe dire all’Europa che noi stiamo realizzando delle importanti opere con grandi investimenti, dei quali anche l’Europa potrà beneficiare; dall’altro lato cosa sta facendo l’UE per creare infrastrutture da integrare alle nostre già in essere? Che sia l’Europa risolutiva, perché non possiamo accettare di fare investimenti al di fuori del nostro Paese: le stazioni abilitate al carico/scarico di merci e camion dalla ferrovia devono essere fatte in Italia, in Germania, etc… Spetta a loro realizzarle.

 

Purtroppo sappiamo che l’Italia non ha i fondi per tali opere, anche se l’Europa sta concentrando molti sforzi sul traffico combinato…

E’ una carta che dobbiamo giocarci nella trattativa con l’UE: quando loro ci dicono che vogliamo tutto a nostro favore, possiamo ribattere che su questi temi dormono e non ci “vengono dietro”… ed in effetti dai discorsi fatti all’apertura di Alptransit dai Presidenti Hollande e Merkel si evince proprio questo: grandi complimenti alla Svizzera che è più avanti dell’Europa e che riesce a realizzare cose che loro non riescono a fare.

 

Alptransit è ormai realizzata… non risulterebbe difficile da usare come contropartita?

Certo, ma non è lo Stato che trasporta le merci, bensì l’economia privata che, così come fa una certa pressione sulle istituzioni svizzere, dovrà cominciare a farlo nei confronti dei Paesi intorno. Ad esempio, io spero vivamente che l’Italia torni ad investire in specifico sulle strutture portuali: oggi sappiamo quante merci arrivano, non si fermano nemmeno in Italia e vanno direttamente fino al nord Europa, quando potrebbe essere molto più efficiente scaricare in Italia e via treno andare nel nord Europa. La Svizzera deve giocarsi le sue carte sapendo che non siamo la “regina” di questo continente; in questo momento siamo quelli che probabilmente vanno meglio e beneficiamo di questo trend, ma che rischiamo di subire il fatto di avere un passo lungo e non avere intorno chi ci spalleggia sotto tanti punti di vista.

 

Le chiedo di guardare con attenzione questa fotografia (mostrando la foto sotto): è un’autostrada in Svezia, dove si sta valutando di attuare questo tipo di soluzione per gli automezzi su gomma. Non dico che la Svizzera debba optare per investimenti di questo tipo, ma se ad un certo punto l’Europa dovesse fare investimenti di questo tipo non crede che anche noi dovremmo adeguarci? 

Probabilmente da noi costerebbe troppo.

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Osservando questa soluzione tecnologica, non le viene un po’ di paura che la nostra opera possa essere poco considerata in futuro dai Paesi europei? 

No, perché guardando alla morfologia della Svizzera, con le sue Alpi, risultano ovvie le difficoltà per realizzare qualsiasi infrastruttura. Inoltre in questa foto manca una cosa: il traffico, non quello scorrevole, ma quello delle 18:00 allo svincolo di Mendrisio. Spero che la situazione oggettiva possa migliorare sulle nostre strade, altrimenti questo camion sceglierà di stare sulla ferrovia.

 

Così come sulle foto dell’inaugurazione dell’Alptransit mancava la frana che è caduta sui binari o il vagone che è bruciato… 

La frana che cade o il vagone che brucia sono eventi eccezionali, non quotidiani come le colonne di traffico che si creano ogni giorno su tutta la rete stradale svizzera.

 

Allora come mai i viaggiatori e le merci continuano ad andare sulle strade? 

Oggi siamo uno dei pochi Paesi che può festeggiare la fine di un’opera realizzata in soli 20 anni, il tempo di una sola generazione. Probabilmente gli effetti di Alptransit li vedremo tra decenni, ma è incontrovertibile che ci sarà una crescita della mobilità delle merci e delle persone; il mondo dei trasporti dovrà trovare un compromesso superando i problemi che contrappongono la ferrovia alla “gomma” e probabilmente si creerà un equilibrio tale per cui meno traffico sulle strade sarà possibile solo con un maggior utilizzo del treno.

 

Si sono investiti 24 miliardi per guadagnare mezz’ora di tempo… Non sarebbe stato meglio orientare le scelte dei passeggeri a favore del treno per attenuare il problema del traffico sulle nostre strade? 

Rigiro la medesima considerazione al contrario: per colpa delle merci su strada i viaggiatori vengono rallentati nei loro spostamenti. La Svizzera, a causa delle merci, non avrà mai l’alta velocità, come quella dell’Italia dei 300 km/h. Abbiamo una rete di infrastrutture in cui cercheremo di combinare la mobilità delle merci e delle persone, dovendo rinunciare a qualche innovazione tecnologica per farle coesistere.

 

I problemi hanno origine dalla firma di un Accordo bilaterale: togliere il vincolo delle 28 tonnellate, per portarle a 40, ha creato delle maggiori possibilità di carico che hanno generato il problema del maggior traffico di merci su strada e che ora proviamo a risolvere con infrastrutture come l’Alptransit. 

Magari, prima o poi, anche in Svizzera dovremo cominciare a parlare dell’intervento del privato nelle infrastrutture, come oggi avviene in Italia per le autostrade o l’alta velocità. A questo punto se il mondo dei trasporti svizzero richiederà un potenziamento delle reti autostradali potrebbe intervenire il privato, anche se tali opere in Svizzera sono sempre state tradizionalmente pubbliche. Pensiamo a come sono gestiti i pedaggi nel resto del mondo, mentre da noi sono ancora un tabù…

 

Cambiando argomento, le dogane svolgono un ruolo fondamentale per la nostra economia, sia in termini di introiti per diritti incassati che per la sicurezza e la tutela dei prodotti. Con il programma di stabilizzazione 2017-19 dell’AFD si è anticipata la decisione di chiudere alcune dogane, tra cui due in Ticino, per ottenere un risparmio nella spesa pubblica. Ritiene questa una scelta giusta o magari si potevano indirizzare i tagli in altri settori dell’amministrazione federale, magari sul militare? 

La prima premessa da fare è che la Svizzera ha tra i propri obiettivi quello di mantenere un bilancio sano. Questo fatto può anche essere criticato da un punto di vista prettamente economico, si potrebbe dire “sacrifichiamo le finanze pubbliche per il bene dell’economia”, con sostegni all’economia privata, investimenti, etc… però in Svizzera non si è mai operato così, almeno nella storia recente. Oggi la politica si trova di fronte ad una crescita dei costi dell’intera amministrazione pubblica, che va frenata, e dall’altro lato ad una diminuzione delle entrate a causa della congiuntura economica. Quindi, per far quadrare il bilancio, come si fa in ogni “azienda” dalla più piccola alla più grande, bisogna guardare alle entrate ed alle uscite: di fronte alla critica riguardante le cifre delle uscite che crescono, l’amministrazione deve evidentemente prendere delle decisioni. Attualmente si sta tagliando in tutti i settori; poi ce ne sono alcuni meglio organizzati e che resistono comunque bene di fronte a questi tagli e ce ne sono altri poco corporativi e meno strutturati in associazioni di categoria che subiscono in maniera molto più forte questi risparmi. Quello che sta accadendo alle Dogane è paragonabile a ciò che sta succedendo in ogni altro settore.

 

Certo, però il programma di stabilizzazione era dovuto principalmente all’abbandono del cambio fisso tra Franco svizzero ed Euro e da un aumento di spese dovute alle domande di asilo: circa 300 milioni di uscite supplementari.

Io non sono nella Commissione Finanze e quindi non conosco tutte le cifre, ma ci troviamo di fronte ad una crescita dei costi per l’immigrazione perché abbiamo la volontà di gestirla. Potremmo anche non occuparcene, ma avremmo tutti i giorni immigrati davanti alle porte delle aziende o dei privati che bussano chiedendo aiuto.

 

Aumentare il numero dei funzionari presso le dogane, non potrebbe essere una soluzione?

Avremmo il problema davanti al funzionario di dogana: cosa dovrebbe dire il funzionario di turno, di tornare indietro? Il rifugiato non torna indietro. Se guardiamo ai numeri delle recenti immigrazioni, vediamo che gli altri Paesi sono stati letteralmente invasi, noi invece abbiamo delle procedure che funzionano ed abbiamo tenuto la situazione sotto controllo. Inoltre, nonostante questa recente ondata migratoria di proporzioni notevoli, in Svizzera ne abbiamo un numero modesto, il più basso degli ultimi venti anni in proporzione al numero di migranti presenti in Europa. Tornando al piano di risparmi, devo ammettere che ci sono alcuni settori che sono trattati con un occhio di riguardo particolare e nel contesto internazionale attuale l’Esercito gode di maggiori facilità nel difendere i fondi ad esso destinati: è appena precipitato un aereo svizzero – ne abbiamo solo una cinquantina (controllo spazio aereo) e non sono sufficienti per svolgere le azioni previste – così di fronte ad un prossimo programma di acquisto di nuovi aerei non potremo che acconsentire. Peraltro va detto che anche l’Esercito sta subendo una forte contrazione: in 20 anni si è passati da 600.000 uomini agli attuali 100.000.

 

Eliminare alcune dogane di confine, riducendo i controlli fisici a favore delle dogane interne o presso le ditte, sembra quasi come mettere in pratica palesemente una sorta di “libera circolazione delle merci” con l’UE. Cosa ne pensa?

Questa è una pratica non decisa dalla politica, ma da un settore specifico dell’amministrazione che io fatico, in qualità di politico, a capire. Poi chiaramente quando si hanno risorse limitate si fa di necessità virtù; però io credo che oggi, alla luce di quello che sta succedendo con il ripristino fisico delle barriere di confine in molti Stati vicini, la Svizzera dovrebbe fare in dogana sia il controllo delle persone che quello delle merci.

 

Se dovessero togliere le dogane commerciali poste al confine, il ruolo dell’AFD sarebbe sminuito al mero controllo delle persone che vanno a fare la spesa in Italia. Lei sarebbe quindi favorevole a mantenerle, piuttosto che quelle interne?

Si, nella situazione attuale, il confine di Stato gioca ancora un ruolo estremamente importante, sia da un punto di vista commerciale che per questioni di sicurezza e doganali. La Svizzera che, rispetto a tutti gli altri Paesi, è riuscita a mantenere le dogane deve farle valere.

 

Come ultimo tema vorremmo chiederle riguardo all’attuale sistema di formazione duale di apprendistato: assistiamo ad un numero sempre calante di apprendisti… Secondo lei quali sono le ragioni che hanno portato a questo? C’è qualcosa che la Confederazione sta facendo per snellire la burocrazia a carico delle aziende legata all’intero percorso dei giovani in formazione?

Nonostante il vostro settore stia vivendo queste difficoltà, il sistema di tirocinio “duale” – con formazione teorica a scuola e pratica in azienda – è una metodologia che ci invidiano dovunque ed è argomento di studio in molti Paesi che vorrebbero attuare soluzioni simili. La realtà è che è cambiata la società, la gioventù ed il ruolo che giocano i genitori, che spesso non lasciano ragionare i giovani con la propria testa. Sicuramente si può lavorare sul fronte della burocrazia, perchè l’amministrazione diventa sempre più complessa con infinite procedure e processi per delegare le responsabilità, però se si guarda non solo questo settore ma in generale, oggi c’è bisogno di aprire una riflessione sociale più ampia sul futuro del nostro Paese: non possiamo essere solo degli “accademici” e concentrarci solo su pochi settori.

 

Nel resto della Svizzera il sistema di apprendistato funziona bene e dà ottimi risultati. E’ proprio il Mendrisiotto che soffre dei problemi prima accennati.

Probabilmente è proprio un problema di quel tessuto sociale ed economico: non solo un problema di salari, ma sono le aziende – che magari vengono dall’estero, inclusi i loro responsabili – che non hanno radicata la nostra cultura dell’apprendistato e vi dedicano poche risorse. Per noi l’apprendista non è la persona che viene assunta per far fotocopie, ma almeno per farlo lavorare e crescere in azienda: è normale averne uno in organico e quindi fare le relative pratiche burocratiche. Su questo punto lo Stato non solo deve intervenire per ridurre, dove possibile, la burocrazia delle procedure, ma deve evidenziare il plusvalore che deriva dalla formazione in azienda degli apprendisti.
Il Mendrisiotto è solo il riflesso di una realtà internazionale che non conosce l’apprendistato: le grandi aziende ed i grandi gruppi internazionali oggi ripongono le loro speranze per il futuro in qualche fondo di investimento in chissà quale Paese; nel Canton Ticino invece ci sono aziende che sono andate avanti nei passaggi generazionali grazie agli apprendisti: il direttore assumeva il giovane tirocinante, perché rivedeva in lui se stesso quando aveva iniziato.
Una grossa azienda la cui Direzione risiede in un Paese lontano e con una cultura aziendale diversa dalla nostra tende a non dedicare le risorse che, ad esempio nella vostra azienda, vengono dedicate alla crescita professionale dei giovani ed alla burocrazia legata al tirocinio.

 

Rimanendo sullo stesso tema, che cos’è lo “stage” per lei?

Lo stage è fondamentale per riavvicinare il mondo della scuola a quello del lavoro: la sua funzione è quella di consentire ai giovani di fare una prima esperienza lavorativa e soprattutto in un mondo che sta diventando “globalizzato” e senza più i legami di una volta con il territorio. Lo stage deve asservire a questo scopo e non deve essere usato in maniera distorta, come strumento di risparmio sul costo del lavoro.
Le scuole devono, passatemi il termine, letteralmente “catapultare” i giovani nel mondo del lavoro e le aziende devono investire sulle nuove leve, puntando sulla promessa che nel futuro saranno ripagate con una nuova forza lavoro di qualità.

 

Biografia | Marco Romano

Marco Romano, classe 1982, è cresciuto nel borgo di Mendrisio e si è laureato in scienze politiche e sociali presso l’Università di Berna.
Già collaboratore personale del Consigliere di Stato Luigi Pedrazzini, dal 2007 al 2012 Segretario cantonale del PPD ticinese, nonché direttore del settimanale Popolo e Libertà.
Eletto nel 2011 in Consiglio Nazionale, membro delle Commissioni delle istituzioni politiche e di quella di redazione; già membro di quella della politica di sicurezza.
Dall’aprile 2016 Municipale della Città di Mendrisio, capo dicastero Economia e Aziende Municipalizzate. Accanto all’attività politica è attivo quale consulente nell’ambito aziendale. Presidente del “Gruppo Latino” del Gruppo PPD alle Camere federali.
E’ attivo in numerose associazioni a titolo volontario quali il Servizio Autoambulanza del Mendrisiotto e la Fondazione Provvida Madre. È presidente dell’Interprofessione svizzera della vite e del vino.

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